pubblicato su il Punto WebMagazine

Il film documentario, dopo il giro del mondo e ottenuto tanti applausi, è tornato a Napoli per la rassegna AstraDoc – Viaggio nel Cinema del Reale.

Pietro e Alessandro non sono due ragazzi come tanti. Dipende da come li osservi.

Pietro e Alessandro sono due ragazzi del Rione Traiano, uno di quei rioni di cui è troppo facile parlare male o la retorica fa altrettanto troppo presto a sporcarsi sull’asfalto, dietro a qualche frase fatta.

Pietro e Alessandro sono i due ragazzi scelti da Agostino Ferrente per il film documentario “Selfie” che, dopo aver fatto il giro del mondo e ottenuto tanti applausi dopo la presentazione alla Berlinale 2019, oltre che la candidatura agli European Film Awards, è tornato a Napoli, al Cinema Academy Astra, per la rassegna AstraDoc – Viaggio nel Cinema del Reale.

Pare che dopo i suoi primi lavori, L’Orchestra di Piazza Vittorio e Le cose belle, Ferrente abbia giurato di non voler più realizzare documentari. Aveva sofferto troppo entrando nelle vite dei protagonisti. Poi è venuto a conoscenza della storia di Davide Bifolco, il giovane morto il 5 Settembre del 2014, per mano di un Carabiniere.
«Lo ha scambiato per un latitante», l’accusa.
«È stato un colpo accidentale partito dopo essere caduto a terra», la difesa.

Al carabiniere, ridotta la pena da quattro a due anni con sospensione della pena.
Per il dolore, il fratello di Davide, Tommaso, è morto dopo 5 giorni di digiuno.

«Se ne era parlato molto tra giornali e talk show e mi aveva colpito la facilità con cui un ragazzino colpevole solo di avere l’età sbagliata nel momento e nel posto sbagliati, per molti era diventato il colpevole e non la vittima: a poche ore dalla notizia il tritacarne del pregiudizio sociale aveva già sentenziato che si trattava di un potenziale delinquente e che quindi, in fondo, era solo “uno in meno”».

Ne Il Narratore, Benjamin scriveva: il narratore è la figura in cui il giusto incontra sé stesso.

Dovere del narratore è quindi restare aggrappato alla vita umana, come se il suo compito non fosse altro che «lavorare la materia prima delle esperienze altrui e proprie in modo solido, utile e irripetibile».
La Woolf, nel suo saggio romanzato Una stanza tutta per sé, scrive «ciò che chiamiamo integrità, nel caso del romanziere, è la convinzione che ci comunica di dire la verità»

Narrare è un fatto serio, richiede credibilità, innanzitutto, e professionalità e Ferrente, con atteggiamento di chi ama raccogliere, selezionare e mostrare, ha cercato di riparare il danno subito dalla storia, di chi l’ha raccontata velocemente, senza onestà.
Né per la storia stessa, né per il gusto di raccontare.

Si può essere giusti se, nel nostro racconto, c’è una finalità allegorica o simbolica tendente all’insegnamento morale oppure se, semplicemente, senza scopi educativi, si vuole solo raccontare?

Nel primo caso il termine tende, filosoficamente, alla retorica dicotomia del bene e del male, nel secondo, ad un senso d’imparzialità, di misura, dove si è né troppo al di là, né troppo al di qua ma, per l’appunto, giusti. Prendo in prestito una riflessione di Raymond Carver:

Se valiamo qualcosa come insegnanti, dovremmo insegnare ai giovani scrittori come non scrivere e a insegnarsi da soli come non scrivere. Nel suo ABC della lettura, Ezra Pound afferma che “una fondamentale accuratezza d’espressione è il solo e unico principio morale della scrittura”. Ma se interpretiamo il termine “accuratezza” nel senso di uso onesto del linguaggio, di dire esattamente quel che si vuol dire al fine di ottenere esattamente i risultati che si vogliono ottenere, è possibile incoraggiare e aiutare gli studenti a praticare una scrittura onesta e forse persino insegnar loro come ottenerla.

Qui, misura e morale sembrano coincidere.

“Chi viaggia, ha molto da raccontare”, dice il detto popolare, e Benjamin aggiunge che il narratore è anche «colui che, vivendo onestamente, è rimasto nella sua terra, e ne conosce le storie e le tradizioni».

E in Selfie, con Ferrente, si viaggia molto, pur soltanto nei limiti bitume-calcestruzzo del rione.
Come nei lavori precedenti, e alla maniera di Zavattini, Ferrente insegue i suoi personaggi, dando però ai protagonisti stessi, seguendoli sempre nelle scelte dell’inquadratura, il compito di mostrare i loro angoli di mondo.

E questa volta, a differenza dei lavori precedenti, la camera è diretta sul volto dei registi-protagonisti stessi, raccontando così due costrizioni-gabbie:

  1. il quartiere, con le sue alte colline di cemento, che nascondono infiniti possibili, alla maniera di Leopardi, per citare Alessandro;
  2. l’inquadratura, in cui filmico e profilmico diventano selezione di una soggettiva rovesciata.

Noi vediamo quello che vede il regista-attore, ma anche il modo in cui lo fan e, pur avendo il volto in avanti, guardano alle spalle: come moderni Angelus Novus.

Alessandro e Pietro non sono ragazzi come tanti altri e Ferrente ne approfitta per scarnificare, rimodellare e dare nuova significazione al concetto del selfie:

se per lo più i giovani sono spesso accusati di riempire l’obiettivo e di conseguenza i social con la propria immagine, per mostrare volti, ciglia, ciuffi e poco altro, Alessandro e Pietro, per dare spazio al mondo che è alle loro spalle, su cui poggia tutta la loro scelta di far parte dei buoni, ne occupano soltanto una piccola porzione.

C’è un doppio che si intreccia con la natura stessa dei quartieri, agglomerati per lo più moderni ma già in rovina, già costruiti sulla crisi.
Nella camera c’è il volto e allo stesso tempo lo sguardo. Ci si guarda ma con distrazione perché l’occhio è puntato a ciò che c’è dietro. Quasi non hanno il tempo nemmeno di guardare al futuro.

Da un lato c’è Pietro, che vorrebbe raccontare anche il lato oscuro del rione, e dall’altro Alessandro, intento a voler mettere in mostra solo il bello.

Nel mezzo c’è Ferrente che col montaggio mette a posto, ordina e trova la misura giusta per il suo racconto, inserendo riprese di telecamere di sorveglianza. Le stesse che la magistratura ha usato per cercare di capire le dinamiche dell’omicidio.

In alcune di quelle riprese il rione è un normale incrocio di esistenze, in altre il degrado si mescola alla resistenza e alla resa di chi in qualche modo tira a campare.

In un quartiere in cui tutti sono uguali e l’ascesa è sinonimo di agonia, l’arrivo alla Gaiuola dei due ragazzi, fino all’ultimo respiro, diventa metafora dell’intero film: la gara sott’acqua, l’affanno di Pietro per risalire le scale, la scalinata stessa angusta e tremendamente in salita.

Solo alla fine, quando si “aurointervistano”, affacciati sul golfo, si vede un pezzo di mondo ma, a mancare di spazio in questo caso, è il futuro già deciso di chi non ha la possibilità di vivere, o nemmeno soltanto sognarlo, in un luogo come Posillipo.

«Potremmo mai vivere prima o poi qui?», chiede Pietro.
«Impossibile», risponde Alessandro.

Il mare non bagna Napoli, si direbbe, e quando lo fa, se lo fa, brucia come lava incandescente.

Il film è costruito sulla morte, sulle assenze e su quanto ci sarebbe ancora da costruire, prima ancora di riparare. Le crepe e la crisi su cui poggia tutto il film trovano piccoli spazi di risate grasse, piene, oneste.

Onestà che ridà la dimensione della vita del Rione, non solo quello in cui ha vissuto Davide.
Ogni pezzo di città abbandonato è un ginocchio sbucciato che non si rimargina.
E Ferrente ci mostra la ferita dal basso, dal di dentro, mettendoci… la faccia.

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