“Uno dei problemi che ho è che non so farmi voler bene, tipo come fanno gli altri. Il fatto è che io riesco a stare bene anche da sola. Magari con un libro e con una sigaretta, ci stavo pure bene. Dico stavo, perché adesso non fumo nemmeno più. Deve essere così. Il problema è che ho smesso di fumare e i libri non si leggono in compagnia. No, non è questo. Altrimenti non mi spiego com’è che le persone si dimenticano facilmente di me nel giro di una sigaretta”.

Teneva le mani scorticate dall’allergia. 
Una specie di dermatite, le avevano detto.
Se non stava attenta, le sarebbe potuto anche uscire un po’ di sangue.
Non fu il caso di quella sera, per fortuna.
Non se l’era mai curata a dovere, la dermatite, anche perché riusciva comunque a suonare senza grossi fastidi. Sì, ok, le mani si erano fatte brutte, ma non le era mai importato.

Per addormentarsi il dolore, ci aveva messo su un paio di birre fredde. Se le era passate prima tra le mani e poi pensò a bersele per finire l’opera.
Pensava, pensava, pensava. Il suo problema era questo: pensare e troppo. Pensava a cose impensabili e dimenticava le chiavi di casa, il portafoglio, dove aveva messo gli spartiti.

Quella sera aveva dimenticato di tutto. Accordatore, il jack buono, il plettro porta fortuna.
Aveva imprecato.
Un amico, anche lui musicista, le aveva dato un paio di plettri che si portava sempre con sé nel portafoglio ma non sarebbe stata la stessa cosa.
“Pigliala come abitudine. Se te li metti nel portafoglio ce li hai sempre dietro”.
“Eh, fra’, c’hai ragione. Ma io mi so scordato un’altra volta pure il portafoglio”.

Nonostante fosse stata sempre solitamente razionale, ci credeva nei portafortuna.
Diceva di non averne mai avuta tanta e bisognava pure prenderla una qualche precauzione.
Per un periodo ha sempre scritto con la bic con cui aveva firmato la convalida del suo primo trenta e lode.
Microbiologia.
Si era iscritta a Medicina per non vedersi fallire.
Mamma e papà non le avevano mai fatto pressioni.
Le dicevano solo “fa’ quello che ti fa stare bene. Piuttosto, fallo bene e mettici convinzione”. E così le misero ansia.
E se avesse fallito?
La musica è difficile, poi sono pure convinta delle cose che dico, ma non è facile convincere gli altri.
E così fece il test, lo passò e, con cinque bic consumate nello zainetto, era fuori corso di un solo semestre.

Certe scaramanzie, comunque, le servivano più che altro per tenere tutto sotto controllo.
Come se a togliere questo e mettere quell’altro avesse fatto un torto a qualcuno e rischiasse di cambiare l’ordine delle cose al cosmo.
E a lei, le cose, andavano già che non trovava mai le chiavi.
Prese a seguire l’esempio della nonna. Poche certezze aveva, ma erano tutte in pochi millimetri quadrati di perfezione in cui disponeva nella credenza le tazze, i gingilli e quella bambola di ceramica che le aveva regalato il nonno con tanto entusiasmo.

Di fronte a lei si era seduta uno vestito in stile trasandato ma per finta: scarpe firmate e barba curata. Addosso aveva un qualcosa come 300 euro di vestiti e l’aria di chi sarebbe stato lì a giudicare le sue canzoni.
Poteva avere sì e no la sua stessa età.  
Le venne da pensare che quei soldi lei se li guadagna, quando e se li guadagna, con tanta di quella fatica e rotture di sangue tra le mani che ci pensa due volte prima di spenderli.

“Ma no, che ne sai tu? Ti fermi all’apparenza? Magari le scarpe gliele hanno regalate per la laurea e il padre si arrangia come può, e magari lui sta pensando di me più o meno le stesse cose: magari che io sono una sfigata, la classica figlia di papà che si è messa in testa di fare la cantautrice, chissà”

Il fatto è che aveva un tifo spontaneo verso chi suda ogni giorno per conquistarsi qualsiasi cosa: un libro, una chitarra, un paio di scarpe, le sigarette, quel corso di musica d’insieme, un piccolo spazio di mondo.
Non era contro a chi teneva una qualche buona sorta nei risvolti della camicia o delle buone facce nella tasca. Semplicemente conosceva i suoi sacrifici e, anche se non aveva ottenuto tantissimo, o forse proprio per questo, aveva stima di chi teneva ancora il coraggio di salire su di un palco e lasciarsi mettere un po’ di merda sulla faccia.

“Siamo il bene, noi. E il bene vince sempre”, aveva detto una volta ad un amico, dopo il terzo bicchiere di vino.

“Amo gli ultimi e impazzisco per chi inizia a correre dopo gli ultimi, e non perché gli ultimi saranno i primi e così sia, ma perché, nonostante il tempo perso, nonostante davanti a loro ci sia tutta quella fila, non se ne preoccupano e, anzi, alla fine, avranno gambe e pancia più forti di tutti gli altri, perché hanno dovuto marciare il doppio. E, attenzione, non per recuperare sugli altri, ma su loro stessi”.

Quando lo disse, era al quarto bicchiere. 

Da ubriaca, le cose le sembravano avere una logica.
Da sobria, si svegliava con la sensazione di aver passato la nottata a dire le cose che dicono le persone stupide quando sognano troppo.
Cercava di darsi delle motivazioni. Il più delle volte queste motivazioni sapevano di scuse, giustificazioni al fatto che, alla sua età, stava ancora a girarsi i sogni tra le mani nel tentativo di metterli in ordine come con le facce di un cubo di Rubik.

Però ora era lì, con una chitarra a cui teneva molto, accordata ad orecchio, e un plettro che le aveva prestato l’amico.

Stava per iniziare la serata.
Le due birre avevano iniziato il loro gioco con lei e la sua testa.
Nel locale non c’erano tante persone. Una ventina scarse.

Un paio erano venute apposta per sentire lei.
Il proprietario del locale aveva detto di iniziare.

Si diede il tempo sulla cassa della chitarra.
Primo giro a vuoto, poi cominciò a cantare e non ci pensò più.

Alla faccia della scaramanzia e delle mani rotte.

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