All’improvviso, si sentì male il nonno.


In studio, Fighetti era svenuto dopo che dalla regia gli avevano dato la notizia che qualcuno s’era fatto esplodere fuori al Senato. Erano morti tutti i politici presenti quel giorno più due turisti che volevano vedere la facciata novecentesca di Palazzo Madava.

Totale delle vittime: 6.
Ci facemmo tutti il segno della croce. Pure io, sebbene non andassi in Chiesa dalla prima comunione.

E infatti, un po’ per mancata abitudine, un po’ per il rincretimento generale causato dall’evento funesto, lo feci con la mano sinistra.

Poco male.


Il nonno si riprese, un po’ a fatica ma si riprese. Merito anche di un goccetto di caffè Porchetti che avremmo voluto aprire a Natale.

Altri due giorni e finalmente avremmo rivisto Zio Sergio, che erano ormai mesi che non veniva a trovarci. A Zio Sergio piace molto il caffè Porchetti e, fondamentalmente, l’abbiamo sempre preso per lui.
Quando ero più piccolo, ma con la testa già dedita a ragionamenti ai limiti della schizofrenia, gli stessi che in età adulta mi avrebbero portato a rinchiudermi in un anacronistico eremitismo, credevo che il caffè Porchetti lo si potesse trovare soltanto allo stadio, come prodotto creato ad uso e consumo dei soli tifosi.

Distribuiti gratuitamente durante i match invernali a tutti i supporters, grazie all’impiego di poveri disgraziati assunti a nero dalle società di calcio e disposti strategicamente in tutto lo stadio, pensavo che i caffè Porchetti fossero un modo con cui i presidenti cercassero di ripagare l’instancabile e incondizionato sostegno dei propri tifosi, in casa così come in trasferta.


Fui costretto a ricredermi, quando, una mattina di una ventina d’anni fa, mi ritrovai ad inciampare su tre casse, e dico tre casse, di caffè Porchetti appena scaricato dal corriere. Era mezzogiorno, mi ero appena svegliato, e non mi sarei mai immaginato di trovarmele lì, nel soggiorno. O avrei dovuto?
La nonna ha sempre fatto così: ogni volta che Zio Sergio si permetteva di dire cose del tipo ma sai che è proprio buona questa mela, subito gli faceva trovare decine e decine di ettari di foreste di mele. E magari a Zio Sergio, delle mele, non fregava proprio niente. Chissà com’è che gli era piaciuta quella.
In realtà, a Zio Sergio, non piaceva nemmeno il caffè Porchetti. Lo ha assaggiato soltanto una volta, quando la suocera si era permessa di regalargliene una bottiglia. Era il Natale del 1990. Gli bastò un solo sorso per etichettarla come la cosa più schifosa al mondo, dopo le orecchie pelose di zio Giacomo.
Si sente troppo il sapore dell’alcol, diceva.

Alla nonna, però, bastò sapere che fosse un regalo della suocera, per metterla sugli attenti che, a quei tempi, le due si sfidavano al chi mette sopra, pratica pare olimpionica tra consuocere fin dalla notte dei tempi.

Intanto, in studio, Fighetti, grazie all’intervento di tecnici, medici e ballerine, ma senza nemmeno un goccio di caffè Porchetti, si riprese alla grande.
Aveva guardato in camera e, passandosi la mano tra i capelli, riuscendo a cacciare addirittura una qualche lacrima, aveva confermato la notizia, quella secondo cui un uomo s’era fatto Kamikaze il giorno dell’antivigilia.

L’aveva detto con l’aria scioccata di chi, in realtà, non se ne frega di niente.

La nonna sbatté le mani per la commozione, congratulandosi a gran voce con Fighetti, per quell’improvvisazione da attore consumato. Sfiancato dalla notizia, come se gli avessero strappato l’anima dai piedi, papà si lasciò andare sulla poltrona e quasi rischiò di schiacciare Cicisbeo, il bastardino metà husky siberiano, metà chihuahua che, lo scorso Natale, zio Sergio salvò dalle campagne di Villa Literno, appioppiandocelo a noi.

Per la cronaca, giusto per tranquillizzare gli animalisti più accaniti, la bestia s’è salvata, sgattaiolando via poco prima dell’impatto tra le natiche paterne e il comodo suppellettile.

“ U gesù”, esclamò mammà dopo dieci secondi passati in religioso silenzio.

Poi, Fighetti comunicò d’essere costretto ad interrompere l’intero programma per dare la linea al telegiornale.
Vedemmo chiaramente la soubrette alle sue spalle mordicchiarsi le labbra.

Forse perché preoccupata per la tragedia o perché delusa e anche un po’ arrabbiata, per aver perso l’opportunità di sgambettare in tv, dopo che era stata nove mesi lontana dalla tv, a causa di una gravidanza indesiderata.
La nonna intanto aveva deciso lanciandole addosso un più cauto epiteto: “Sta puttane”!


Alla prima edizione straordinaria del telegiornale, ne seguirono altri cento.

In casa era caduto il silenzio. E quando dico silenzio, voglio proprio dire silenzio. Non fosse stato per i cronisti dei vari Tg che s’accavallavano tra un canale e l’altro, a chiunque, la casa sarebbe sembrata un cimitero.

Manco i soliti u marò, u gesù, che solitamente scandiscono gli spasmi di dolore di mia madre con inconscia regolarità.
La tv mostrò una città allo sbando, assediata da militari, carabinieri, ambulanze, elicotteri, giornalisti e poliziotti.
Palazzo Madava sorrideva da terra con lunghe strisce di storia andata a male.
In studio qualcuno chiese se non fosse necessario lanciare una campagna di sensibilizzazione per raccogliere fondi per la ricostruzione. Qualcun altro ebbe il buongusto di consigliargli una gita a Vancouver.
Intanto, il nonno si fece un altro sorso di caffè Porchetti e finì per ubriacarsi.
Una di un Tg regionale biascicò i nomi delle vittime. Tra questi sentimmo quello dell’ex consigliere, proprio quello che, durante l’ultima campagna elettorale, era stato accusato di essere tra i più assenteisti tra i colleghi.

Dopo due ore di telegiornali, nessuno ancora aveva chiarito chi si fosse fatto esplodere e il perché. Non c’erano state minacce nei giorni precedenti e dell’attentatore non era rimasto altro che il terrore, l’angoscia, la rabbia e l’aria che sarebbe stata poggiata con cura nella bara, insieme a dei brandelli di jeans ritrovati tra le macerie e che, vista la modestia della qualità, fu logico per tutti pensare fossero stati i suoi.
Nel giro di ventiquattro ore, fummo investiti da un centinaio di notizie apocalitticamente false. Le indagini erano partite in fretta, è vero, ma nessuno ancora era riuscito a mettere insieme qualcosa di vero. Nessuno sapeva dove sbattere letteralmente la testa.
Ciononostante, i salotti dei più disparati talkshow si erano riempiti di gente che aveva cose da dire: ipotesi, congetture e congiunzioni astrali, antropologi e orefici, psicologi e psichiatri, fu chiaro a tutti, più o meno, che era iniziata la corsa al caso, quello che strappa lacrime e dignità.

Barbara Sturzo fece man bassa di testimoni oculari, sensitivi e tattili, di chiunque fosse in grado di raccontare ai suoi telespettatori un briciolo di storia per tenerle alto lo share. Nel suo studio, accolse un tale che aveva conosciuto un altro tale che aveva saputo di uno che, due giorni prima della tragedia, aveva comprato una bottiglietta d’acqua proprio al bar di fronte il Senato, e che ora andava in giro a dire hai capito? Io due giorni fa sono andato a comprare una bottiglietta d’acqua, l’ho pagata 4 euro, li mortacci loro, se solo avessi aspettato due giorni per bere, chissà che fine avrei fatto. Ti rendi conto? Gesù gesù.


Lei, Barbara Sturzo, come un’abile dottoressa, li auscultava con perizia, indovinando il momento esatto in cui iniettarsi gli occhi di lacrime e incredulità.

Intanto, in casa, ci imponemmo la normalità, convinti che sarebbe bastato sforzarsi per essere felici e levarsi da dosso il fetore della tragedia.
Era pur sempre la Vigilia di Natale. Il giorno dopo sarebbe arrivato zio Sergio e, per questo, la nonna era felice. A casa Candela, la famiglia, lo stare insieme, è da sempre l’unico sostegno su cui ancora si può fare affidamento, l’unico modo per continuare ad accarezzare i sogni. E fa niente se non ci sono regali sotto l’albero.
I preparativi per il cenone della Vigilia avevano ripreso il ritmo di ogni anno. Il nonno s’era occupato dei frutti di mare per il primo. Alla nonna era toccato completare gli struffoli. Mia madre e mio padre gli antipasti: insalata di rinforzo, insalata russa, cocktails di gamberetti, pizza prosciutto e carciofi, sono alcune delle cose che mi ricordo.
Arrivò presto sera.
Ancora trovavamo spazio per infilare nello stomaco qualche noce, tra una tombolata e un commento gastrointestinale di Zia Maria, quando squillò il telefono.
Risposi io. Dall’altro capo c’era zia Concetta.
“Uagliò, appiccia ‘a televisione e miette ‘o quinte canale”.

Non salutò nemmeno e il modo in cui lo disse, tutta tremante, mi fece salire tutto il baccalà fritto.
Comandai mio fratello di accendere la televisione e di mettere il quinto canale.

[…] Voi capite che Papà, con la pensione che prende, a stento riesce a pagarsi l’affitto, figuriamoci ad aiutare i figli e, tuttavia, se non fosse stato per lui, nessuno di noi avrebbe potuto fare la vita che ha fatto.
Non sono sicuro che qualcuno avrà il coraggio di leggerle queste mie parole in tv. E se dovessero farlo, nessuno se ne fotterà, ne sono certo. Fra qualche giorno già vi sarete dimenticati di me e di tutto il resto. È chiaro, qualcuno griderà allo scandalo. Che non è questo il modo di risolvere le cose. Ma ripeto, pochi giorni, e tutto sarà dimenticato. Ve lo faranno dimenticare. In ogni caso, credetemi se vi dico che non era mia intenzione rovinare il Natale a nessuno, ma quando, qualche mese fa, il medico mi disse che sarei dovuto morire precisamente il 28 Gennaio, dopo la disperazione, ancora prima della rassegnazione, ho deciso che sì, avrei dovuto farlo.
È che mi è venuta tanta rabbia. Negli ultimi anni non ho mai avuto un lavoro stabile. Mal retribuito, sempre. Notti insonni per i dolori alle gambe, alle braccia, alla testa, pure. Per cosa? Per sapere che mia madre a 79 anni si è trovata a chiedere un po’ di latte alla vicina, sennò non poteva cenare? O la bolletta del gas o la fetta di carne. La capite – no? – la frustrazione. 

Non va sempre così. Noi figli in qualche modo siamo sempre riusciti ad aiutarli.
Anche quest’anno, una mano ciascuno e si è fatta la spesa di Natale.
Il piatto a tavola non è mai mancato. E però qualcosa dovevo dirla a quelli che in tv parlando di stringere la cinta, fare qualche sacrificio. Che le tasse fanno bene allo stato. Che l’evasione è il cancro del paese. E intanto nemmeno sanno che a mia madre fanno male le ossa perché ancora va facendo le pulizie a casa della gente che evade le tasse e tiene la casa in montagna affittata tutto l’anno.

Tanto che potranno mai farmi, ho pensato. In ogni caso, sono già morto. 
L’idea mi è venuta, guardando la Tv. Li vedevo, li ascoltavo e mi saliva il vomito. Ma tanto loro se ne fottono, è questo il problema. Sarò pure retorico, ma voi avete la forza e gli argomenti per darmi torto?
Per mettere in pratica il mio piano, non è che avessi bisogno di molto. L’importante era fare in fretta. Non potevo aspettare un solo attimo in più. A breve, il corpo m’avrebbe abbandonato, forse prima del previsto, forse per sempre. Forza, lucidità e un biglietto del treno, niente di più.

L’esplosivo? Mi è bastato mettere insieme un po’ di botti illegali, comprati un po’ qua un po’ là. Il resto, credo, come si dice?, è cronaca. Polvere, questo è quello che rimane o rimarrà di me. È strano dover accordare, coniugare oppure scegliere un verbo quando, all’atto in cui scrivi, non sai cosa sarà di te. Quindi, non fateci caso a come scrivo. Le idee sono chiare, chiarissime, ma il dubbio di non farcela resta. Vorrei soltanto che non mi giudicaste. Non sono né un terrorista, né un eroe. Non sono nemmeno pazzo, se è quello che avete pensato. Sono lucido, lucidissmo. La malattia non ha intaccato il sistema nervoso. Potete trovare conferma di quel che dico nella cartella clinica che ho consegnato, insieme a questo foglio che sto scrivendo, all’unica persona di cui mi potessi fidare: me stesso. Ho messo tutto in una busta sigillata che mi sono spedito a casa con la ricevuta di ritorno, e che ho poi nascosto sotto al materasso. Un paio di giorni e troverete tutto, ne sono certo. Ho preso delle precauzioni, ovvio, per evitare che qualcuno possa parlare a sproposito, ma sono certo che sarà impossibile fermare il chiacchiericcio dei tanti. Temo pure che qualcuno possa nascondere e bruciare la cartella clinica, per poter dire “è solo un povero malato. Tutto è tranquillo. Non c’è un pericolo terrorismo”. Già lo so che faranno così, ma che volete farci? Nutro ancora l’illusione che gli ultimi desideri scritti col cuore in mano da un condannato a morte contino ancora qualcosa. Credetemi se vi dico che spero di non trovare nessuno al Senato. Non voglio far del male a nessuno. Non sono un violento. È solo un gesto. Una metafora. Quale? C’è bisogno di dirlo? Devo fare filosofia? Va bene: con la disperazione, la fame e il culo della gente non si gioca. Minaccia? Nessuna, tanto sono già morto, ve l’ho detto già.
Sono sicuro di lasciare del vuoto nella mia famiglia, lo so, ma l’idea che i miei genitori si sarebbero dovuti occupare di un figlio malato per poi vederlo spegnersi lentamente, mi avrebbe ammazzato prima.

Ah, loro non sanno niente, nemmeno che sono malato. Quindi è inutile che li interroghiate. Lasciateli stare. Lo giuro sui figli che non ho mai avuto, ma che avrei tanto voluto dare alla donna che amo. Non lascio nessun rimpianto. Ho fatto sempre quello che volevo.

Di quello che ho fatto, di quest’atto di reazionaria razionata follia, non me ne vergogno, sappiatelo. Non preoccupatevi nemmeno di farmi il funerale, tanto di me non saranno rimaste neppure più le ossa.
E comunque, un suicida, seppure destinato a morire, se non sa gioire delle sofferenze donate dal signore, non è degno di entrare nella sua casa. Funziona così, no?

Vorrei soltanto che mia sorella e mio fratello abbracciassero forte forte mio padre e mia madre e a lei, soprattutto, ve ne prego, ringraziatela per tutte le mele che, ogni giorno, per trent’anni, mi ha sbucciato e messo nel pranzo di lavoro.

Vostro, per sempre, Sergio Candela.

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