
Sta facendo un certo brusio la scelta dell’Università telematica E-campus di aprire un corso di laurea triennale in “Influencer Marketing”, all’interno della facoltà di Scienze delle Comunicazioni.
Molti si stanno chiedendo, ticchettando sui social, condividendo il link sui social, facendo tutto sui social, se fosse davvero necessario un corso che insegni bene l’utilizzo dei social a chi vuole lavorare coi social.
Ma che tipo di percorso garantisce il corso in questione?
Leggo dal sito di E-Campus:
«Il percorso di studi si struttura su tre anni. Il primo anno affronta temi trasversali come semiotica e filosofia dei linguaggi, estetica della comunicazione, informatica, tecnica, storia e linguaggio dei mezzi audiovisivi. Il secondo scende nel dettaglio di alcune discipline come la psicologia e la sociologia della moda, ampliando le conoscenze dello studente nell’ambito della comunicazione grazie a discipline come il diritto dell’informazione e della comunicazione o la sociologia della comunicazione e dell’informazione. L’ultimo anno prevede la partecipazione a laboratori tematici, che vanno dalla scrittura istituzionale e pubblicitaria alla lettura dell’immagine, e si conclude con tirocini formativi e di orientamento».
Un corso intenso e articolato che offre quindi allo studente la possibilità di impossessarsi di competenze trasversali e utili a tutti i livelli della comunicazione e che non parla mai di facebook&co.
Solo dal terzo anno, si offrono laboratori tematici nei quali, immagino, sarà prevista un’analisi dei social
Che sono tanti, diversi, specifici per ogni ambito, e per il cui corretto uso non basta pubblicare una semplice foto, con un qualche filtro, un paio di tag e via.
Cos’è però un influencer?
Di Influencer marketing si parla dagli anni ’40 dello scorso secolo ma, soltanto con l’uso massiccio dei social, si è intensificata la presenza nel mercato di questo tipo di figura professionale: un individuo capace, attraverso le sue qualità comunicative, di influenzare le scelte quotidiane non solo di pubblico X ma anche quelle dell’azienda stessa.
Semplice.
Per dirvene qualcuna, sotto questa sbrigativa descrizione, ci vanno anche i The Jackal, Cartoni Morti, Clio Make Up, tutti quei Youtubuer et similia che nel tempo hanno iniziato a produrre video a scopi commerciali.
L’influencer è diventato, e lasciatemi il paragone molto largo, un moderno venditore della Folletto o rappresentante Avon che, attraverso nuove modalità comunicative, interagisce con un pubblico potenziale di acquirenti molto più vasto,
Dal “porta a porta” al “post in post”.

Direte che i the Jackal lo fanno con un certo tipo di qualità scrittura audiovisiva mentre, che ne so, la De Lellis pare non brillare di cultura. Può darsi, ma riesce comunque ad attirare un pubblico X con delle strategie di marketing, forse innate ed istintive, ma che andrebbero analizzate, studiate e comprese.
E non si parla solo di un uso di tipo commerciale, ma anche privato ma, per non allargare troppo i campi di questo ragionamento, rimaniamo solo sul primo.
Per un periodo, le aziende sono andate alla ricerca di endorser, attori, sportivi, politici, gente insomma dello star System, con un attenzione particolare al personaggio pubblico del momento che potesse rientrare nei gusti o nell’immaginario di un certo spettatore, prima puntando ad uno pubblico eterogeneo, poi ad uno più specifico e targhettizzato, in base alla tipologia del prodotto.
Esempio: George Clooney può piacere a tutti o solo ad un pubblico femminile?
Cosa deve promuovere?
Poi è stata la volta del testimonial, un attore non famoso ma capace di rappresentare la “gente comune” in un contesto familiare e/o ideale.
Esempio: la famiglia della Mulino Bianco.
In entrambi i casi gli spot si sono divisi nel tempo in due macrogeneri:
a) veri e propri corti in cui gli attori (famosi e non) interpretano un qualche ruolo di fantasia;
b)semplici messaggi promozionali in cui l’oggetto commercializzato viene inserito nella quotidianità del famoso e del non famoso.
Poi esistono le vie di mezzo, come gli spot della Lavazza dove il famoso non fa altro che interpretare sé stesso ma in un contesto di chiara finzione.
E l‘influencer?
Nasce in un contesto paradossalmente nuovo ed è declinabile in modi tanto diversi quanto diverse sono l’offerta, le competenze e le aree di interesse di ognuno.
Quando molti hanno iniziato a caricare video su Youtube non pensavano minimamente di poter creare intorno a sé un interesse tale da poter influenzare lo spettatore.
E oggi si pone come terza via del testimonial e dell’endorser.
Del primo condivide gli elementi di quotidianità, familiarità e intimità, del secondo, dopo un uso sapiente del medium, l’essere un volto noto, qualcuno da cui trarre ispirazione, una star.
Ognuno degli esempi fatti più sopra propone non solo il loro mondo artistico/lavorativo ma una vera e propria visione, un modo di vedere la vita, la missione che si sono prefissati e che vogliono condividere col mondo, tra un racconto tratto dalla loro quotidianità e un consiglio per gli acquisti.
Tecniche che molti hanno acquisito da sé nel tempo, ma che altri hanno mutuato dalle loro esperienze pregresse.
Un mondo, quello dei social, che si fonda sull’apparenza, si dirà, ma che non è tanto diverso da tutto ciò che ha a che fare con la moda, il marketing e gran parte dei settori di comunicazione.
Perché quindi questo corso di laurea mi pare la giusta conseguenza alle evoluzioni del nostro tempo?
Perché se la scrittura, l’automobile, il tostapane, la lavatrice sono nate, maturate e sviluppatesi nel tempo, di pari passo con le nostre capacità di comprensione, analisi e diffusione, Internet e in particolar modo i social sono invece per lo più usati senza che ci sia stato il tempo per un vero e proprio studio.
L’iniziativa di E-Campus, non a casa una Università Telematica, ci pone nuovamente di fronte alle innovazioni digitali del nostro tempo, offrendoci la possibilità di avvicinavici non più come capre senza pastore, ma padroni consapevoli del nostro tempo e delle nostre possibilità.
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