Cercare di adeguarsi alla società e farlo all’interno di uno schema che tende a schiacciarti. Provare, allo stesso tempo, ad emergere, a proprio modo, scendendo le scale, in un elegante smoking tutto colorato, sorridendo e ballando, senza che ci si preoccupi dell’opinione, del giudizio, del buon costume.

Joker non è semplicemente il criminale cattivo che trova in Batman il suo acerrimo nemico.
Se volessimo stare alla Morfologia della fiaba di Propp, in ogni racconto, l’antagonista è semplicemente colui che, indifferentemente se sia un orso o una strega cattiva, a prescindere quindi dalle sue caratteristiche fisiche, muove un’azione contraria a quella dell’eroe-protagonista, rallentandone le azioni attraverso tutta una serie di escamotage.
Un’opposizione A contro B che, nelle grandi narrazioni contemporanee, va alleggerendosi, offrendo allo spettatore, ormai alfabetizzato, la possibilità di fare analisi meno superficiali e di andare maggiormente in profondità.

«La fine delle grandi narrazioni nella postmodernità porta con sé la fine delle grandi prospettive etiche unitarie, o quantomeno la difficoltà rappresentata dalla loro difficile convivenza».


Z. Bauman, Postmodern Ethics, Oxfod, Blackwell, 1993. (Trad. it. Le sfide dell’etica, Feltrinelli, Milano, 1996.)

In letteratura, questo tipo di indagine dell’animo umano, capace di scandagliare l’etica comune, fino a creare approcci empatici col protagonista, è presente già da tempo.

Raskolnikov di Dostoevsky, Barry Lyndon di Thackeray, Bardamu di Céline, Hank di Bukowski, sono solo alcuni dei personaggi criminali/cattivi che affollano la letteratura e che creano, con il lettore, un canale di ascolto, di comprensione.
Ognuno con le proprie malattie a causa delle quali sono impossibilitati a vivere in società, mostrando che: «Il concetto di antieroe è infatti molto più complesso e articolato, e presenta molteplici ambiguità e sfumature. Il termine è stato utilizzato per la prima volta da Dostoevskij in Memorie dal sottosuolo nel 1864 per identificare il carattere del protagonista, alla ricerca dell’umiliazione e dell’autodistruzione in un estremo tentativo di ribellione alla realtà che lo circonda» ( A. Bernardelli, Etica Criminale. Le trasformazioni della figura dell’antieroe nella serialità televisiva, “Between”, Vol. VI, n.2, http:// www.betweenjournal.it, p. 3)

Si è di fronte alla rottura degli schemi, al tentativo di raccontare una storia senza opposizioni tra bianco e nero e, alla Commedia dell’Arte, alle maschere, subentra la vita dei personaggi con tutte le loro sfumature positive e negative.
La questione dell’empatia e della fidelizzazione col personaggio negativo è spesso al centro del dibattito degli ultimi anni.
Ciò che si realizza tra fatto narrato e fruitore è una sospensione del senso di immoralità, «vale a dire una sospensione e relativo distacco da parte dello spettatore dal senso della consueta concezione etica relativa ad eventi reali» (ibidem) un meccanismo tipico delle strutture retorico-discorsive che rientrano nelle logiche del patto finzionale.

E però c’è una novità in questo Joker:
Il villain tragico shakespeariano, per esempio, è caratterizzato da un tipo di costruzione del personaggio che non cerca assolutamente alcuna complicità o coinvolgimento emotivo, né tantomeno etico, ma l’unica sua possibile redenzione consiste nella morte (ibidem): pensiamo ai protagonisti della serie Tv “Gomorra” o a Walter White in “Breaking Bad”.

In Joker, invece, siamo chiamati ad esultare alla sua rinascita, alla sua vendetta, a conclusione dell’arringa con cui rivendica di un po’ di attenzione da parte della società, proprio mentre, quella stessa società gli sta fischiando contro.
E quando dopo un climax di successi delle sue azioni, pare schiantarsi all’ultimo incrocio e così redimersi finalmente alla vita, la ribellione ai Wayne diventa un fatto totale, sociale, politico, ancora attuabile.
Il sangue diventa sorriso e la sua fuga dal manicomio, dopo che ha appena ucciso nuovamente, ha del comico.

Joker è l’arrivo di un’atteggiamento narratologico in cui il passato è richiamato per giustificare le azioni immorali dei protagonisti.

Gli schemi proppiani sono saltati, i cattivi non sono più cattivi ma le loro brutte azioni sono conseguenza di meccanismi non più così semplici da analizzare .
Diventa difficile, oltre che impensabile, accettare e ricoprire per sempre un ruolo impostoci dalla società.
E nemmeno più il narratore è in grado di garantire che i vestiti che ha così minuziosamente cucito possano aderire perfettamente ai corpi abnormi, sporchi e così umani dei suoi protagonisti.

La risata imposta a tutti i costi, la felicità di cartone, mentre dentro il pagliaccio piange. Il trucco inevitabilmente non man-tiene, si scioglie e mostra che dietro alla risata la sofferenza non la si può ingabbiare: anzi, si mostra come un solco sul viso, una firma col trucco sulla faccia-lavagna.
Non si è cattivi dalla nascita, e nemmeno più per costruzione autoriale.

Tenendomi al di qua di qualsiasi critica cinematografica, non avendo le competenze per gridare al capolavoro e/o per consegnare a Phoenix il premio Oscar, ho cercato di ripercorrere, brevemente, alcuni tasselli del processo evolutivo di certe narrazioni, a partire dalla letteratura.
Di recente, queste sfumature sempre più labili tra buoni e cattivi mi sono sembrato evidenti anche in film d’animazione come Aladdin.
Anche qui, Jafar, pur rimanendo sconfitto, e così fedele al suo ruolo di antagonista, viene delineato con maggiori sfumature psicologiche, smarcandolo da una certezza caratteriale, un topos che, forse, oggi, non è possibile più continuare a raccontare.

in fede

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