
Ero in un bar.
Non ricordo granché, a parte lui.
Aveva degli occhiali curiosi, tondi, sottili.
Era magro, tanto magro da pensare fosse malato e infatti lo pensai.
E ad ogni modo non di quella malattia che ti consuma le ossa, le carne, le frattaglie.
No, di quelle malattie che ti entra nella testa e ti devasta l’anima.
Bello era bello, ne sono certo, sebbene non sappia dirvi che tipo di bellezza possedesse.
Si portava dietro tutta una luce malinconica.
Lo guardavi e di lui avresti potuto dire con certezza una cosa:
“Poveretto, non sa ridere”.
Aveva la faccia di chi, senza che nessuno glielo avesse chiesto mai, si porta addosso le ansie di tutta l’umanità.
C’era la tivù accesa. La solita partita di calcio, era un mercoledì.
La Coppa nazionale, forse. Maglie bianche, maglie azzurre, un campo verde.
Questo mi pare di ricordare, nulla di più.
Può darsi fossi già ubriaco. Non so.
Ricordo soltanto di aver bevuto quattro cinque birre.
Prima di conoscere Katty, con quattro cinque birre avrei fatto un semplice aperitivo, poi lei mi addomesticò, mi insegnò anche a ballare e, per fare spazio alla vita, dimenticai com’è che si beve.
Quella sera, già dopo un paio di birre, l’inibizione se n’era andata a fanculo e avrei potuto ballarvi un tango in mezzo alla sala.
L’avrei fatto, se non fosse arrivato lui, con i suoi occhiali malinconici e il suo aspetto tondo da intellettuale.
Si sedette al mio fianco, cupo in volto, con un angolo del viso arrabbiato, duro, un po’ crudele.
Anche lui avrà perso la sua Katty, pensai. Anche lui avrà dimenticato come si beve.
Fu forse per questo che ebbi la sensazione che non sapesse ridere.
Si sedette al mio fianco, mi salutò, poggiandomi la mano sulla spalla, poi mi chiese come sta?
Dissi bene, ma capì che gli avevo detto una bugia.
Come potevo stare? Avevo perso la mia Katty, i suoi seni, le sue gambe, il suo rispetto. E poi fuori era un casino: la gente sbraitava, sputava, bestemmiava, inveiva contro altra gente. E poi si faceva saltare in aria, così, come se niente fosse. E poi sperimentava nuove armi di distruzione di massa nell’oceano. Buum, tutto in aria acqua, pesci, vita, morte. La bomba.
Tutti lo sanno. Qualcuno ce l’ha e se la tiene nascosta nella cantina di casa, in mezzo al vino. Un giorno, qualcuno, anziché darsi alla vita, pigerà un tasto, uno solo, semplice, rosso, con su scritto pigiami per favore, e metterà fine a tutto questo scempio.
Come potevo stare?
“Due terzi dei miei concittadini leggono questa razza di giornali, leggono mattina e sera queste parole, vengono lavorati ogni giorno, esortati, aizzati, resi cattivi e malcontenti, e la fine di tutto ciò sarà di nuovo la guerra, la guerra futura che sarà probabilmente più orrenda di quella passata. Tutto ciò è semplice, limpido, tutti potrebbero capire e arrivare in un’ora di riflessione al medesimo risultato. Ma nessuno vuol riflettere, nessuno vuol evitare la prossima guerra, nessuno vuol risparmiare a sé e ai propri figli il prossimo macello di milioni d’individui. Rifletterci un’ora, chiedersi un momento fino a qual punto ognuno è partecipe e colpevole del disordine e della cattiveria del mondo: vedi, nessuno vuol farlo. E così si andrà avanti e la prossima guerra è preparata giorno per giorno con ardore da molte migliaia di uomini. Da quando lo so mi son sentito tagliare le gambe e mi sono disperato e non ho più “patria”, non ho più ideali perché tutto questo non è che uno scenario per quei signori che preparano la prossima carneficina. Non ha scopo pensare pensieri umani e dirli e scriverli, non ha scopo rimuginare in testa pensieri di bontà: per due o tre persone che lo fanno ci sono in compenso ogni giorno migliaia di giornali e di riviste e discorsi e sedute pubbliche e segrete che vogliono il contrario e lo ottengono”.**
Glielo dissi come se avessi avuto addosso, impressa nella memoria e nelle frattaglie, la rabbia di tutto un secolo, e come se, in quel momento, di fronte a lui, avessi avuto bisogno di tirarla via da lì.
Mi ero liberato, scavato dentro. Così rimasi leggero, vuoto in petto.
Lui mi guardò, sorrise come se avesse capito le mie parole o come se si fosse accorto di aver ritrovato, in quel bar umido, una parte di sé, l’ultima, quella più latente.
Poi mi offrì una birra, ché se si vuole riempire il vuoto con l’alcol c’è bisogno di riprendere il ritmo e dimenticare Katty, i suoi seni, le sue gambe il suo rispetto. Non me lo disse esplicitamente, me lo fece capire.
Poi mi disse:
“Sa qual è il suo problema? Lei non sa più ridere”.
Sorrisi: forse aveva ragione.
Mi voltai per dirglielo, ma non trovai più nessuno al mio fianco.
C’era un bottiglia di birra mezza vuota. Mi guardai intorno, nessuno mi osservava, me la presi.
Ero in un bar.
Non ricordo granché, a parte lui.
E una partita di calcio, di mercoledì, coppa nazionale, credo. Maglie bianche, maglie azzurre, un campo verde.
Questo mi pare, nulla di più.
** tratto da “Il Lupo della Steppa” di Hermann Hesse.
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