Su tutto, evidenzio l’antitesi dentro cui il togliere il rossetto fa da perno alla libertà femminile: da simbolo dell’ossessione maschile, ornamento che si deve lavare via con forza, dove la mano dell’uomo sulla bocca mette in muto la donna e la sua libera scelta, a certezza di una libertà da acquisire: io metto e io tolgo quando e come voglio.

Gioca sui dettagli il film: solo dopo che è morto il princeps, l’archetipo figurale del padre padrone, monarca allettato, malato, ma ancora capace di fare proselitismo, l’azione liberatrice è possibile.
E non si corre verso un altro uomo o un altro alleato – che pure è servito per non correre il rischio che le vecchie abitudini continuassero ‘ancora domani’ – ma verso un’ideale più alto, ché da qui si parte, per dare il buon esempio: a maggior ragione se non è fatto in segreto, ma rilevato, con coraggio, salendo delle scale che si fanno metafora di un percorso di formazione che inizia scendendo, ché l’ideale deve pur toccare terra per non restare lì, in alto, nell’iperuranio/cantina delle utopie.

Perché il titolo naviga nella polisemia: ‘c’è ancora domani’ è un invito a coltivare la speranza laddove è ancora possibile acquisire i propri diritti: non è tardi, c’è ancora domani, appunto; ma è anche un invito a guardarsi bene dal futuro: i diritti ottenuti possono esserci sottratti in qualsiasi momento e non solo: Delia teme si ripetano, ancora domani, nella vita della figlia Marcella, le stesse dinamiche tossiche relazionali. E perciò bisogna agire, per una – scusare il gioco di parole – iniezione di fiducia per il futuro.

Insomma, c’è ancora domani rima con c’è ancora oggi, per la più classica retrodatazione manzoniana: si raccontano le ombre di ieri per mostrare quanto ancora si allunghino sul domani.

xr:d:DAF3jPO6o8s:11,j:7469632949376361131,t:23122107

Comments are closed

Premi