“Non ho mai avuto l’ossessione (dell’oro olimpico, a distanza di quasi 30 anni dalla finale persa ad Atlanta ’96 n.d.r), non sono come Baggio che ripensa sempre al rigore”.
Queste parole di Velasco, uno dei più vincenti allenatori di palla a volo, sono la risposta a un modo di pensare allo sport e, in generale, alla competizione che, più che rifiutare il buonismo, qualsiasi cosa voglia significare, sposa con rito morganatico il concetto dell’autoflagellazione.
In merito a Baggio, non so quanto la sua sofferenza abbia inciso sul graduale declino in termini di vittorie, quelle che ti fanno alzare le coppe.
So però che, per molti di noi, il Divin Codino non ha eguali nel panorama calcistico mondiale, non per le vittorie ma per il suo limpidissimo talento.
Baggio è il calcio, punto. E nulla conta il fatto che abbia vinto meno di quanto meritasse.
Ma non sapremo mai realmente quanto la troppa sofferenza, l’incapacità di accettare realmente il ruolo della sconfitta all’interno di tutto il proprio percorso, abbia inciso sulla sua serenità.
L’elogio della sofferenza che ha tessuto Di Francisca, ritornando al caso Pilato,
la nuotatrice che aveva reagito sportivamente col sorriso all’uscita dal podio per una manciata di centesimi, poggia su una cultura del dolore e del dover patire tipica di una vecchia generazione che confonde l’impegno e la determinazione con la frustrazione molto simile al “ricordati che devi morire”.
Nessun competitivo dimentica che, all’interno di una gara, ci sarà un risultato che distribuirà vinti e vincitori ma il modo di reagire più sano è quello che, sul lungo, ti farà stare bene con te stesso e ti darà la forza di rimetterti in gioco.
È noto d’altronde che, per riuscire meglio in qualcosa, spostare ‘momentaneamente‘ la propria attenzione verso altro, aumenta le possibilità di successo: meglio un giro con un amico che stare ore e ore sullo stesso esercizio, meglio vedere un film che provare e riprovare senza risultato, meglio buttare tutto per aria che perdere il senno e il sonno… insomma, meglio sorridere che dannarsi.
È una questione culturale, ma anche politica, perché la dottrina del ‘se ti impegni con tutto te stesso, alimentandoti col cibo della disperazione e della sofferenza, alla fine vinci’, non è reale e partorisce abomini di autocommiserazione e sensi di colpa in caso di caduta, offrendo il fianco a vili meccanismi ipercapitalistici:
“Se avessi spinto un po’ di più, se avessi calciato meglio quel rigore, se non avessi preso quella stecca, se avessi studiato fino a tarda sera, se avessi consegnato un pacco in più, se avessi prodotto ancora ”… sono costrutti ipotetici che non pianificano il futuro ma retroattivano tutta la propria esistenza verso un inutile ‘cosa sarebbe stato se’, cancellando il presente, distruggendo il proprio Io.
Comments are closed