Nella lettura di un libro al mese e nel percorso graduale di crescita, considerando gli argomenti affrontati, a scuola ho assegnato il tanto amato quanto odiato “Il Piccolo Principe” e, come volevasi dimostrare, qualcuno lo ha amato, qualcuno meno, qualcuno lo ha odiato proprio perché, forse, non ne ha capito le – pur retoriche, ok, ma ahimè per nulla scontate – profondità.

Su due elementi abbiamo ragionato però molto ed è venuto attraverso la rilettura di classe:

1. Il narratore e Il Piccolo Principe condividono l’esperienza del viaggio, inteso alla maniera di Benjamin. Raccogliere, fare esperienza e tramandare, offrendo un utile.
E si sovrappone così l’io dell’autore con quello del narratore, mescolando al personaggio la rifrazione dei tanti io, io, io disseminati nel testo, compreso quello del Principe.

2. Che il narratore parte raccontando in terza persona, presentandoci il Principe che potremmo interpretare come incontro tra l’adulto e il bambino che era; per poi usare il tu, invitando il lettore – al quale pure in questo modo dà il tu – a immedesimarsi col Principe.
È chiaro che parli, fin dalla prima pagina, a noi lettori, ma lo rimarca, quasi ci stesse guardando negli occhi. E lo fa con la visione dall’alto di chi conosce la geografia umana.

Alla fine di questi ragionamenti, uno studente:

“Ma ogni volga che leggiamo dobbiamo fare questo. Cioè lei fa questo?”, facendomi capire che non ha ben introiettato il senso dell’essenzialità invisibile agli occhi che un lettore, o un critico, o l’uno e l’altro, deve cercare

E Voi?
Amate o odiate il Piccolo Principe?

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