C’è sempre, tra i lettori, questo dibattito la cui vis polemica, forse, tra i meno avvezzi, non si spegnerà mai:

meglio il film o il libro?

Ero anche io frequentatore di questi ring, se non altro, più nello specifico, amo isolarmi nelle pagine, nel libro, e tra me e il testo si crea un rapporto di amore patologico, feticista e di immedesimazione e tortura, orecchiette e matita, che, davanti allo schermo, beh, semplicemente non c’è.

Eppure, negli anni, vuoi pure l’avvicinamento al seminario di Silvia e poi una laurea in discipline della musica e dello spettacolo, con un percorso specifico nel cinema, ci ho capito meglio e ho capito l’idiozia del dibattito.

Non che prima non avessi dei film per i quali impazzivo eh, e anche sapevo, non ci vuole una laurea per capirlo, che i mezzi fossero diversi e tuttaquellarobalì, però pure facevo fatica.

Non immaginatemi seduto su una sedia, imparrucchito, ad argomentare sull’abominio del cinema.
Ci sono film che amo da sempre e che non potrei nemmeno mai immaginare di “leggerli”.

Lo so, sembro quelli che dicono non sono omofobo ho pure degli amici gay.

E però, è per dire, che con “Revolutionary Road” ho proprio scoperto che film e libro dialogano benissimo.

Insomma, studiare certe cose aiuta, almeno a quelli stupidi come me che però si salvano, per l’appunto, studiando.

Stanotte ho finito di leggere “La vita davanti a sé” di Romain Gary, autore che per anni ha usato lo pseudonimo Èmile Ajar.

E, non ve lo dico nemmeno, l’ho scoperto col film che c’è su Netflix, quello in cui Sofia Loren interpreta la parte di Madame Rose.

Ora, però, non voglio parlarvi del film che, ecco, dopo qualche libro letto, dopo centinaia di film visti, ma anche tramite un confronto-conforto, ché ti viene sempre il dubbio “sono io che studio troppo e non capisco oppure è talmente una scemità che non ci vuole essere studiati per capirlo”?, lo posso dire:

il film è ignobile.

Il film è ignobile non perché nel suo trasportare è stato costretto ad adattare, a togliere e tuttaquellarobalì.

Il film è ignobile perché è tecnicamente brutto ma non vi dirò mai di non vederlo. Non fa parte della mia cultura. Non amo recensire male ciò per cui gli altri hanno lavorato tanto tempo.
E poi dentro c’è un cast (e qui la frustrazione per un’occasione mancata!) di tutto rispetto.

Il film è ignobile perché, in realtà, se non fosse stato per un’amica, Roberta, non lo avrei salvato dal ricordo del film.

“Il libro è bello, leggilo”.

E l’ho fatto, innamorandomene.

Il film è ignobile proprio per questo: perché rischia di dare, del libro, una storia brutta, raccontata peggio.

Ma magari a qualcuno il film è piaciuto e questa mia premura di salvarlo ha meno senso.

In “La vita davanti a sé”, libro, Momò, il ragazzino, affidato alle cure di Madame Rose, ex prostituta che fa da orfanotrofio illegale per figli di altrettante prostitute, non arriva mai a spacciare, come nel film.

Capisco che l’adattamento, contestualizzando la storia ai giorni nostri, abbia creato questo link abominevole in cui, un bambino nero di colore, orgoglioso e anche un po’ viziato, nel 2020, debba spacciare droga, con conseguente redenzione, crescita collodian, possa aver allettato gli sceneggiatori, ma il massimo che fa Momò, nel libro, è andare con Arthur, una marionetta costruita con un palloncino e un ombrello, a fare spettacoli elemosinanti.

Ma questo, passi pure: ripeto, il film è brutto per com’è fatto, nemmeno per una questione di fedeltà al testo ché, mi ripeto, lungo la strada della transcodificazione, per terra si lascia anche molto più materiale, di solito.

La storia è una storia di prostituzione, abbandoni, diritto all’eutanasia e libertà mancate, crescite improvvise e di relazioni impossibili, tra bambini e anziani, israeliti e palestinesi, di sogni che si fanno incubi «quando i sogni invecchiano».

La voce di Momò è resa, da Gary, in modo che, ogni frase, ti taglia dentro, fin dalla prima pagina.

La mia ignoranza è finita verso i tre o i quattro anni e certe volte ne sento la mancanza

E quando si lega a un cane, Super, e si rende conto che non può dargli la felicità che lui stesso avrebbe voluto dalla vita, lo dà via, lo mette in vendita, forse non credendo di riuscirci così in fretta.

“Quando Super ha incominciato a crescere per me dal punto di vista sentimentale, ho voluto dargli una sistemazione; è la stessa cosa che avrei fatto per me, se fosse stato possibile”.

I soldi guadagnati li butterà poi via.

Un bambino, ci dicevo, più o meno sopra, per niente uguale a quello del film.

Come se, nel passaggio avesse, dovuto perdere di ingenuità matura e vestirsi di una retorica che, senza giri di parole, fa solo incazzare.

È Momò a raccontare la storia e lo fa, a volte, sbagliando gli avverbi, usandoli male al posto giusto, regalando, così, dei giochi e delle conseguenzialità tutte nuove, capaci di stupire il lettore che ama strabuzzare gli occhi quando parlano i bambini.

A me non piace la gente che ha la faccia che cambia in continuazione e sfugge da tutte le parti e non ha mai lo stesso muso due volte di seguito. Uno di quelli che chiamano moneta falsa, e certo lui doveva avere le sue ragioni, chi non ne ha, tutti hanno voglia di nascondersi…

Momò non conosce bene l’età che ha, nemmeno è convinto di essere un buon musulmano, va oltre la sua religione, impara l’ebraico per amore, ma anche per osmosi d’amore, di Madame Rose che, sempre più vecchia, sempre più grassa, sempre più malata, darà a Momò l’occasione di amarla fino e oltre la morte.

Non bisognava disturbarla quando piangeva, perché erano i suoi momenti migliori

Ah, Momò in realtà sarebbe Mohammed, ma lo stesso Momò preferisce che lo si chiami così e allora io lo accontento.

È un libro che si gioca proprio sulle assenze e sui legami nati su un’identità in costruzione.
Momò non ha famiglia se non quella costruite nella grassezza di Madame Rose e su qualche bella parola del Vecchio Hamil.

Entrambi, Madame Rose e Hamil, perderanno lentamente la memoria.
È sulla dimenticanza, sull’incertezza, sulle scoperte improvvise, come quelle che i bambini fanno giorno dopo giorno, e se sono bambini intelligenti, di ora in ora, che Momò racconta e lo fa col piglio degli scrittori.

Ad un certo punto, dice una cosa bellissima.

Il signor Hamil, un venditore di tappeti, ha un libro che confonde, fonde, unisce, al Corano.

È “I miserabili” di Victor Hugo.

Momò capisce così perché Hamil, spesso, ormai un po’ rimbambito per la vecchiaia, lo chiami Victor e non Momò.
Qualche pagina più avanti, Momò si trova a parlare con due persone tagliate dal film: una è una doppiatrice; c’è una bella immagine metacinematografica sul tempo che non può tornare indietro, proprio come quando si realizzano doppiaggi, a quando Madame Rose era giovane e bella. L’altro è una specie di psicologo che presta molta attenzione e serietà al suo racconto.

E nel raccontare a loro la sua vita, la tragedia della salute pessima di Madame Rose, mentre parla, capisce di avere molte cose da dire, e allora dice, così, come se non ci fosse alcun senso:

“Il signor Hamil ha un Libro del signor Victor Hugo con sé e quando sarà grande scriverò anch’io i miserabili perché è quello che si scrive sempre quando si ha qualcosa da dire”.

In conclusione, ma vorrei starci sopra ore intere, salvatelo. Se avete visto il film, dimenticatelo, salvate la storia, salvate Momò e Madame Rose, salvate questa storia d’amore e integrazione, di ingiustizia e allenamento cardiomuscolare all’esistenza.

E fate come ha fatto con me Roberta.

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