Il pugilatore è il “giro lungo” con cui Amleto De Silva parla di Sonny Liston, ma anche di cinema, letteratura, musica e…

Il giro lungo è quello che fanno i flaneurs, dice Amleto De Silva, per tutti Amlo, subito, a inizio libro.

Il giro lungo è cioè il modo che hanno i narratori – aggiungo, scrivendo, in obliquo, di fianco a lui – di «far durare il più possibile una cosa che piace a loro», per vezzo quasi autoerotico, ma anche perché non è possibile che non piaccia anche agli altri.

«Il tempo è fatto proprio per far durare più a lungo le cose che ci piacciono […]»

Non è una cosa nuova in Amlo.

Anche in Stronzology e Degenerati, editi da Libr’Aria, ti fa fare bellissime panoramiche intorno a temi a lui cari.

È una cosa comune alle persone colte, intelligenti e che provano a consigliare senza essere presuntuosi.
Avete presente il famoso saggio di Benjamin sul Narratore?

Avrebbe dovuto scrivere un testo intorno alle opere di Leskov e, infatti, ad un certo punto quasi ce lo dimentichiamo, salvo poi renderci conto che Benjamin sta solo parlando di qualcosa a cui davvero tiene e lo fa attraverso un autore tanto amato, dal quale, alla fine, comunque passa e spassa.

De Silva gira intorno, come il pugile sul ring – per restare in tema – senza mai perdere di vista l’obiettivo, trascinandosi dentro tutti i ricordi mai perduti.

Patterson è Americano, Sonny Liston no. Non lo è affatto. È uno schiavo scappato al suo massa e che si è fatto un po’ di strada a cazzotti, niente di più. Ma è un cattivo. E i cattivi devono perdere. Nel caso di Sonny, non lo dicono solo i buoni, ma anche gli altri cattivi, che si sentono un po’ meno cattivi di lui e vogliono tanto piacere ai buoni

DA IL PUGILATORE

De Silva racconta l’uomo, non il personaggio cattivo della trama giornalistica del tempo, mostrando come certe narrazioni vadano sviluppate diversamente.

Liston non è Mohammed Alì, cioè un nero in qualche modo accettato dall’America bianca.

Liston è «l’orso nero e cattivo», quello delle periferie senza esempi, quello che faceva paura alla stessa comunità nera «che voleva essere accettata da quella bianca, imitandone i canoni intellettuali e estetici» e che resta impaurita «nello scoprire che un negro così esiste davvero, e non solo nella propaganda del Klan»·

Ecco, avete presente Green Book, il film di Peter Farrelly? Si racconta la storia di Don Shirley, un musicista jazz nero che cerca una sua strada per essere accettato dalla comunità bianca.

«Fai musica da bianchi e vivi per i bianchi», gli rimprovera ad un certo punto Frank “Tony Lip” Vallelonga, l’italo americano che gli fa da autista durante il tour nell’America del Sud, proprio dove la segregazione è più spietata.

È il caso di dirlo, non per fare anche io il giro lungo, ma Mohammed Alì è più o meno come Don Shirley, mentre Liston è solo un pugilatore che, come tanti, ha a che fare con la mafia che gestisce le scommesse più o meno clandestine – «perché tutta la boxe, bene o male, era della mafia» – e, come tanti, ha a che fare con un mondo che «non divide la realtà tra Legge e Mafia, ma tra chi ti lascia morire di fame immerso nelle buone intenzioni e chi, anche se è un pezzo di merda, ti offre l’opportunità di sopravvivere e mettere un piatto in tavola alla tua famiglia».

In questo testo, Amlo racconta e si racconta.
Perché Il pugilatore è un libro contro il razzismo, sicuramente, contro il perbenismo, anche (perché De Silvia è un autore che non le manda mai a dire), mettendo avanti a tutto gli ultimi, gli emarginati e gli incompresi ma, soprattutto, è un’autobiografia spassionata.

Perché, e mi spiego, nei ricordi, nei rewind continui della memoria, andando a pescare abitudini – come quelli di comprare con sacrificio vinili e di collezionare e criticare le copertine dei 45 giri -, amici che hanno «scelto di non esserci più», professori amati e tutto ciò che tiene insieme il mondo intorno a Liston, De Silva ci fa vedere come sia possibile mostrarsi senza mai mettersi in primo piano.

Pur mettendoci la faccia.

Lo so, è un discorso démodé, ma chi se ne frega: è la verità. A me piacerebbe che ad arrivare prima fosse la Legge, ma io la fame nera non l’ho mai provata, e non so cosa significhi non poter pagare le bollette o non essere in grado di far mangiare un figlio. Nel dubbio, preferisco, da sempre, schierarmi con chi ha questi problemi, e chi se ne frega se i moderni prevosti non approvano. Sinceramente, si fottano».

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