Un vecchio racconto ripescato dal vecchio blog

“Sono razzista e me ne vanto”.
Non l’ho detta mica io questa cosa qua, eh, ma mio cugino.
Ora vi spiego com’è che stanno le cose.
Allora, c’è un lato della mia famiglia che ritengo sia lombrosiamente devastata dal gene della scemità.
Tu gli parli di musica, di letteratura o, che ne so, di Decomposizione della specie umana con la diffusione dello sperma di Salvini per mezzo delle ovaie della Isoardi, corso che a breve sarà istituito dalla Federico II, presso la facoltà di Sociologia, e loro rimangono fermi a contemplare il vuoto, come a dei babbasoni.
Ma pure se provi a dar loro delle piccole semplici indicazioni, tipo dove si trova la pasticceria in cui avete comprato le sfogliatelle per il compleanno di zia Maria, sì, anche per queste cose così, pure non riescono a darti segni d’intesa da esseri almeno pensanti.
Il più delle volte, hai la sensazione che non abbiano capito niente.
Il più delle volte, non hanno capito niente.
Restano muti e, al massimo, ti rispondono con una specie di grugniti mono-consonantici, strani versi gutturali con cui si capiscono solo tra di loro, e, coi quali, forse forse, ti prendono pure per il culo.
Pensa.
Però mio cugino è un tipo intelligente, rispetto al Dna che gli scorre in corpo.
Nel senso che, se gli spieghi il motivo per cui Gigi D’Alessio non può essere considerato un artista, annuisce con cognizione e ti dà pure ragione.
Insomma, eravamo seduti al bar e disse questa cosa. Sono razzista e me ne vanto.
Per poco non mi andava il caffè di traverso, tanto che c’ero rimasto male.
Essendo il cugino meglio riuscito, me lo tengo stretto e cerco, giorno dopo giorno, di inculcargli qualche cosa di buono.
Negli anni, gli ho passato un sacco di dischi e gli ho regalato una marea di libri, con l’idea che, una volta ascoltati o letti, ci si vedesse per parlarne insieme.
Mio cugino è un po’ un club del libro, e vado fiero di ogni suo miglioramento.
Ah, dimenticavo di dirvelo, mio cugino ha undici anni meno di me.
Che cosa vado facendo in giro con un ragazzino di 16 anni, vi chiederete?
Faccio in modo che non si perda, in attesa che un giorno, da un momento all’altro, possa impazzirgli il Dna.
Una volta mi disse di aver letto tutto in una notte Il vecchio e il mare, e che, anche se aveva preso una brutta nota sul registro, perché si era addormentato in classe, non faceva niente; ne era valsa la pena.
Ad ogni modo, capirete che mi venne un colpo quando, tra una leccata e l’altra al suo gelato, tutto azzeccatosi in faccia, sulle mani e sulla maglietta, mi disse Sono razzista e me ne vanto.
Cioè, l’avesse detto suo padre, un uomo enormemente ottuso, non ne sarei rimasto sorpreso.
Ma da lui, il mio fiore all’occhiello, fu un vero e proprio tradimento.
Mi vennero subito in mente tutte le volte in cui avevo provato ad inculcargli certi concetti.
Una mattina, lo presi a paccheri in testa perché aveva osato contraddirmi: Però il fascismo ha fatto un sacco di cose b… Buuummm… una carocchia in testa gli diedi. Si mise a piangere, giustamente. Riuscii a calmarlo promettendogli che gli avrei regalato qualsiasi libro avesse voluto dalla mia libreria, poi gli dissi ad un orecchio: “È così che fanno le dittature. Quando c’è una voce forte che, senza paura, si oppone all’ideologia di potere, utilizza la violenza senza se e senza ma…”.
Fece sì con la testa, come ad aver capito, mi sorrise e poi mi ricordò della promessa.
Prese una copia de Il vecchio e il mare.
Quando gli feci notare che già ce l’aveva, mi rispose:
“ La tua è più vecchia, mi piace di più”.
Personalmente, a dirvela proprio tutta, avrei approfittato della promessa in maniera diversa: avrei preso qualsiasi altra cosa, ma mai un libro già letto, ma era solo un ragazzino, e poi, se gli piaceva la mia più vecchia edizione, de gustibus non disputandum est.
A parte questo, anche se a sedici anni ancora non sa mangiarsi un gelato senza zozziarsi sano sano, si è sempre dimostrato un ragazzino piuttosto sveglio, considerando la famiglia.
Com’è che ora si mette a dire ‘ste porcate?
Non mi misi a prenderlo a schiaffi, ‘sta volta. Quello fu solo un modus educandi circoscritto a quella precisa situazione.
Del tipo, ti piace il fascismo?
Eccotene le conseguenze.
Vuoi il mio posto?
Prenditi pure tutto l’handicap.
Iniziai a spiegargli i motivi per cui certe persone scappano dai paesi in cui vivono, le difficoltà, l’importanza dell’accoglienza, la necessità di restare umani, l’imbroglio politico e mediatico che sposta altrove, dove si vuole, le vere problematiche del paese, di cui non si parla mai in tv (perché non conviene), le bugie che raccontano, la xenofobia (che cresce senza freno in tutta Europa), il dolore, la sofferenza, l’etica della reciprocità, il fatto che l’uomo può subire qualsiasi tipo di angheria, persecuzioni, campi di concentramento, discriminazione, esserne vittima o spettatore, ma non impara mai. E gli ho raccontato storie, esempi, aneddoti, di associazioni, movimenti politici, di quanti guai ha combinato e continua a combinare l’Europa in Africa e in Palestina e in Asia.
Del casino che hanno generato, fondendo in un’unica nazione, a capa di cazzo, identità culturali diversissime tra loro, ponendo le basi a numerose crisi intestine.
Una mattina, dei piccoli ingegneri del Risiko si so’ messi col righello e hanno diviso le nazioni come fossero puzzle di un disegno. Quale fosse ‘sto disegno, ancora non si è capito proprio bene bene, o quasi. Guarda, guarda la cartina, gli dissi, indicandogli i confini dell’Egitto, della Libia, per mostrargli giusto un esempio.

Poi, gli ho spiegato la cosa in maniera diversa, una specie di paradosso, stupido forse, sicuramente banale, forse già fatto, ma utilissimo:
“ Immagina: Sei sposato da anni e credi che il tuo rapporto coniugale sia indistruttibile, ok? Bene. Poi arrivo io e ti convinco che in realtà, per tenerlo stabile, c’è bisogno che tu divida tua moglie con me, per un perfetto menage a trois.
Per mesi, anni, decenni, io te e tua moglie andiamo avanti insieme. Il più delle volte, quando tu non ci sei, ne approfitto per scoparmela da solo, e nelle posizioni più impensabili, insegnandole cose che non aveva mai fatto con te. (Sì, non preoccupatevi: mio cugino sarà pure più piccolo, ma è più scetato di me, in queste cose)
Poi, un bel giorno, ti confesso che era tutta una presa in giro e che, in realtà, ho solo compromesso il tuo equilibrio coniugale. Così, me ne vado e ti lascio nella merda più totale.
Senza soldi, perché negli anni, tu hai lavorato ed io, a mò di parassita scansafatiche, ho approfittato della tua ospitalità, dissipando anche i pochi risparmi che avevi messo da parte, prima del mio arrivo.
Con un figlio in arrivo, che non sai se è il tuo.
Con tua moglie che non si accontenta più di te.
Con una guerra tra le due famiglie, perché ti incolpano di aver permesso che il diavolo ti entrasse in case.
Disoccupato, perché il tuo datore di lavoro, pensando di potersene giovare anche lui del rapporto a tre, ha seguito il tuo stesso esempio.
Così, si è ritrovato anche lui senza soldi, e per di più costretto a dover licenziare tutti i dipendenti e a chiudere l’unica fabbrica della città.
Con a carico una moglie sconsolata ed un figlio che non sa se è suo.
La tua unica chance è quella di venire a chiedermi una mano, visto che, in un recente passato, non solo ho approfittato della tua ospitalità, e quindi sono in debito con te, ma ho pure tanto da farmi perdonare, considerando che ti ho distrutto la vita. Ci sei? Ok, Bene.
Io che faccio? Logico! Ti nego tutto, aiuto e accoglienza e, in più, sollevo su di te l’ira repressa dei vicini, degli amici e di tutta la famiglia, i quali da me si aspettano tanto, visto che ho promesso loro un pezzettino di tua moglie.
Ti sbatto la porta in faccia, ti offendo, ti spingo via e ti lascio morire fuori al giardino. Capito? Bene.
Ora, tu sei l’immigrato, tua moglie rappresenta la tua identità, mentre io sono il paese che, prima ti ha invaso, e poi si rifiuta di aiutarti. Capito?”.
Stetti buono dieci minuti a raccontargli tutto il fattarello, e alla fine della storia, nonostante sembrasse aver capito, ripetè:
-Sì, ma non toglie che sono razzista e me ne vanto.
Stavo per rispondergli, cercando di trovare gli argomenti più giusti per approfondire ancora di più la cosa, quando fu lui a zittirmi.
– Ma scus frà, cioè, capiscimi. Non so’ i neri i problemi, ma gli scemi. Come fai a non essere razzista verso gli scemi? Cioè la storiella che mi hai raccontato è vecchia, frà. Cioè, capisci. Il sud ha subito la stessa cosa, o no? Quando po’ stanne chilli quatto strunz che dicono lavali col fuoco e compagnia bella. Cioè, in classe c’ho un amico nero. Cioè, non c’è differenza. Anzi frà, cioè, è pure meglio di me. A scuola è un genio ed è gentile con tutti, pure se lo sfottone ‘ o terroriste. Quello è buono come al pane. E poi il padre lavora dalla mattina alla sera. Si fa un culo così, tutti i giorni. Come mio padre, come tuo padre. Cioè, frà. Lo sai, cioè, qua basta poco e diventi uno malamente. Bianco e nero, l’uomo se può far schifo, fa schifo a prescindere dal colore della pelle. L’amico mio, invece, è uno che parla come a te. E’ intelligente e ascolta bella musica. E po’ Salvini parla quando e come vuole dentro la televisione, e la gente gli dà corda, perché così fa comodo o perché so’ sciem. Cioè, frà, come fai a non essere razzista verso sta gente? Lo so, tu dirai: ma quello proprio perché è scemo, non lo devi pensare. Però io non ce la faccio, e va a finire che parla uno scemo, parla un altro scemo, va a finire che rimaniamo sommersi dagli scemi. Hai sentito a Umbero Eco l’altro giorno? Troppi scemi, ed io non ne posso più. No, frà, a modo mio, ma fammi resta’ razzista… Cioè, ‘o fatte ‘e Voltaire, cioè, Non condivido la tua idea, ma darei la vita perché tu la possa esprimere, cioè, frà, è bella come frase, quelle cose ad effetto che va bene solo ‘ncopp a Facebook, ma a finale è ‘na strunzata. Frà, cioè, è bella, addosso a un’ideologia è perfetta, ma io non pozzo da’ ‘a vita pe’ nu strunz comme a Salvini. Cioè, frà, no. Stavota no… Damme pure nu buffe, ma famme fa ‘o razzista cu sta ggente. E basta.
Basta.
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