In un’epoca in cui la figura dell’autore (o, in senso ancora più largo e astratto, del creativo), viene spesso messa in dubbio, attraverso la multidimensionalità e la partecipazione attiva dello spettatore nel fatto creativo – dal televoto del talent a piattaforme come Wattpad – e c’è una continua autoriflessione sul mezzo filmico, Netflix s’inserisce nella discussione tramite la serie più metacinematografica del suo catalogo.

D’altronde, non è la prima volta che gli autori di Black Mirror affrontano il tema della narrazione e le sue molteplici deviazioni/declinazioni: 

il primo episodio della quarta stagione, giusto per fare un esempio, Uss Callister, è un magnifico gioco di narrazioni multiple in cui esistenze digitali, create a partire dal Dna umano, inserite in un gioco virtuale – una riproposizione parodiata di Star Trek -, e capaci di sentire emozioni vere pur non essendo reali, modificano la narrazione prima, fino a distaccarsene completamente, per inserirsi, finalmente libere dalle catene della vita reale e del videogioco,  in un’altra multidimensionale.

A nulla serve cercare di manipolarla e tenerla sotto controllo, tentando di inserirla in un unico solco, come accade alla madre del secondo episodio, in cui attraverso un dispositivo digitale, Arkangel, controlla, edulcora e manovra la vita della figlia: la narrazione/vita, inevitabilmente, finisce per ribellarsi e ritorcersi contro

I mondi distopici di Black Mirror riflettono continuamente sul rapporto tra uomo e tecnologia, con finali mai favorevoli ai primi e in Bandersnatch la situazione non cambia.  

Le novità sono però almeno due dove la seconda rende (quasi) superflua la prima:

  • ​la più evidente, l’intervento dello spettatore, attraverso il proprio telecomando (o il mouse, se non dotati di smart tv) con un incremento delle potenzialità tecnologiche di partecipazione e immedesimazione col protagonista, è stato in realtà già proposto da Netflix lo scorso 20 Giugno con “Il gatto con gli stivali – Intrappolato in una storia epica”, mini serie per bambini di “racconti a narrazione ramificata”;
  • la rinascita/riconferma – e questa è un’opinione personale – della figura dell’autore (o degli autori) come deus ex machina indiscusso del gioco creativo, poiché è vero che all’utente vengono offerte delle scelte (soltanto due, per ora), ma sono per lo più ininfluenti ai fini della trama o, in altri casi, conducono a vicoli ciechi che interrompono la narrazione per ritornare al punto precedente, come in un video gioco in cui si è persa la vita e si ritorna indietro all’ultimo salvataggio. È sempre l’autore a telecomandare lo spettatore (come a dire, in luogo di metafora, tipica in Black Mirror, siamo tutti sotto osservazione e nessuna delle nostre scelte è realmente nostra, ingabbiati dal medium) al punto da sottolineare, con un’ironia che mette anche un po’ i brividi, la sua presenza. Quando Stefan Butler, il personaggio di Bandersnatch, si renderà conto di essere osservato, che le sue azioni dipendono dalle “scelte” di qualcuno dall’alto e vorrà sapere chi è, Netflix farà la sua presenza, proponendo-si come opzione di risposta. Verrebbe da chiedersi, giustamente, quanto ci sia dell’autore e quanto del brand Netflix o dello stile della serie stessa, ma si entrerebbe in una discussione sul concetto di stile ancora priva di soluzioni chiuse. ​

La sensazione è che in Bandersnatch, mescolando detto e non detto, verosimile e inverosimile, è ancora solo il Narratore  – o l’ideatore o la casa di produzione o tutti questi insieme, forse non più quello più propriamente benjaminiano, ma ancora riconducibile ad una qualche identità che propone una propria visione del mondo – a mettere ordine nel caos delle possibilità, concedendo allo spettatore, prendendolo anche un po’ in giro,- repetita iuvant – solo l’illusione di decidere ancora.

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