Quando Northrop Fry scriveva che “l’arte per l’arte è una rinuncia alla critica che si conclude con l’impoverimento della stessa vita civile” intendeva puntare il dito contro chi considera artificiale il ruolo del critico, in opposizione al gusto del pubblico, inteso romanticamente, come naturale e spontaneamente artista.
direi che l’errore comune a questi modi di considerare il problema sia quello di una troppo immediatamente correlazione fra il valore dell’arte e la sua fruizione, correlazione intesa in modo diretto nel primo caso ed in modo inverso nel secondo.
Anatomia della critica, Northrop Fry
Voglio dire, cioè, che spesso scrivere e commentare, inventare e allacciare anche ciò che un altro autore non ha visto della sua stessa opera è un’attitudine cui l’homo sapiens sapiens – comunicans comunicans, scrivens scrivens, legens legens e via dicendo – deve continuare ad aggrapparsi se ancora crede nella Poesia.
Con la maiuscola, personificandola come madre di tutti noi. E in quanto bene superiore, questa pratica critica, capace di andare anche oltre alle prime impressioni, positive o negative che siano, va insegnata, diffusa, incoraggiata.
Quando insegno letteratura, non mi limito a mostrare ai miei studenti le strade percorse dai critici citati dai manuali, ma cerco di far capire loro come ci sono riusciti.
La domanda più frequente, quando ad esempio mostro le strutture circolari di certi romanzi o l’uso dei nomi parlanti anche in contesti poco evidenti è “prof., ma queste cose come le conosciamo?”
E dopo aver risposto, li invito a mettere i pezzi insieme, a commentare addosso all’autore, ad atteggiarsi a critici. Certo, certe proposte sono impervie, qualcuna eccessivamente spericolata, ma ancora una volta vanno raccomandate, assicurandosi che le loro intuizioni abbiamo sostegni e parole certe.
Insomma, bisogna leggere ancora.
Ciro Vittozzi esordisce con il suo primo libro a quaranta due anni, è laureato in filosofia e ha alle spalle un’ottima esperienza come sceneggiatore di un cortometraggio, Diotima – La prima regola dell’infinito.
Dico questo perché sappiamo che le biografie hanno un peso nell’analisi di un’opera e perché nella penna di Vittozzi – nonostante non abbia investito in un profumoso corso di scrittura – si sente il peso letterario di chi, negli anni, ha scritto e riscritto, cercato e ricercato, per il suo Santafè, storie di insubordinazione sentimentale( edizioni la gru), la parola giusta.
C’è profumo di scrittore, altro che esordio. Per questo aggiungevo l’aggettivo rassicurante: a netto di qualche refuso, c’è uno stile già consapevole e destinato a maturare ancora (è la bellezza della parola pesante/pensante che va costantemente alla ricerca di sé e che non può esaurirsi in un libro).
A comporre l’antologia sono quattro racconti (o tales per usare la narratologia anglosassone per individuare quelle storie più corti di un romanzo ma decisamente più lunghe di una short story): Esposito, Touch move, Ansiolin, Alla sinistra del padre, e in tutti e quattro a fare da sfondo c’è Napoli ai tempi delle restrizioni (economiche e sentimentali) della pandemia; ma che siamo all’ombra del Vesuvio, ce ne accorgiamo per lo più grazie ai dettagli e al dialetto, perché i racconti si annodano intorno a certe disperazioni umane che, a volerle circoscrivere geograficamente, forse si fa dànno all’autore (e un assist a chi crede che certe distorsioni siano solo figlie di Pulcinella).
E giacché i vicoli non sono i soliti deuteragonisti narcisi ma strumenti architettonici per ingarbugliare gli intrecci – e non mostrare il mare e il sole se non alla fine di un lungo vagabondare – le trame di Vittozzi fanno lo stesso movimento annodante: si attorcigliano, ricamano, fanno su e giù tra androni e terrazzi. Gli strumenti usati con saggezza, gusto e giusto equilibrio sono pause e agnizioni imprevedibili, plot twist inenarrabili senza rischiare di fare fastidiose anticipazioni.
Quando credi di aver capito a quale meta ti sta conducendo, vieni strattonato, spinto a guardare cosa c’è nello strapiombo. È l’effetto dell’insubordinazione ai finali di facile consumo.
La pandemia invece ha maggiore peso negli equilibri delle funzioni di personaggi e trame.
Perché spinge un po’ più in là il bisogno della disperazione al “sottoproletariato ignaro, senza coscienza di classe”, citando Michele in Alla sinistra del padre, racconto che tengo in analisi per mostrare le altezze contenutistiche di questo lavoro.
Michele è un uomo modesto, semplice, ma né stupido, né cattivo; un elogio al flaneur esistenziale contemporaneo che vive tra il desiderio di un’indipendenza personale e l’impossibilità a lasciare il nido familiare con 800 euro al mese. La trama è così vivisezionata:
- Ha un’infatuazione per una ragazza che conosce di vista;
- ci va a letto;
- scopre che fa parte dei collettivi dei centri sociali;
- fa di tutto per capire il suo mondo, studia legge Marx e affini;
- ma durante una riunione si scontra con i compagni quando, prendendo parola, parla dei piccoli commercianti in difficoltà a causa della pandemia;
- lei lo allontana, i piccoli commercianti rappresentano la borghesia e poco importa se dietro ci sono vite, denti consumati, sangue buttato;
- si ubriaca;
- va in ospedale;
- conosce un’associazione che aiuta i più bisognosi;
- collabora con loro ma durante la consegna dei pacchi alimentari scopre che per questi ci sono disperati di serie A e quelli di serie B (“prima i nostri”).
Come si vede, il materiale è tanto. Oltre al finale, ho tagliato tanti passaggi annodati, come già accennato, da una certa e benedetta predisposizione alla descrizione, che non ha meri compiti decorativi ma interviene proprio per fare spazio tra un finale atteso e quello reale.
Ma anche plot twist non sono semplici stratagemmi d’intrattenimento.
In questi racconti, i personaggi e le loro vite entrano come pescati e poi seguiti da una spidercam per essere, in conclusione, rigettati nella “caotica, anonima corrente che solca il decumano ogni giorno”, citando l’atto conclusivo di Esposito. Nel mentre, dei personaggi sappiamo tutto, vediamo e sentiamo tutto ciò che vedono e sentono loro.
L’onniscienza è rassicurante, ma momentanea: le improvvise torsioni dell’obiettivo della camera – con l’aiuto di ellissi e non detti che spingono il lettore a riempire i vuoti parlanti – riannodano il racconto, dalla conclusione allo spannung, fino a una nuova rottura degli equilibri che riconduce i personaggi di nuovo in strada, dentro alla disperazione/dispersione.
Perché si cammina tanto in questi racconti, non sempre con finalità evolutivi tipici dei racconti di formazione. Anche Alessandro di Touch Move cammina tanto, nonostante sia chiuso in casa per le restrizioni e per un improvviso e benvoluto acquazzone.
Su e giù tra la tavola e il divano, viaggiano i pensieri, le recriminazioni, i progetti e il tentativo di entrare in un ruolo che non gli appartiene:
…Posso prendere tutte le decisioni che voglio nella mia testa, fintanto che ho tempo per comunicarle al mondo non potrò essere rincorso dalle conseguenze.
Santafè, Ciro Vittozzi
È insubordinante la vita, con i suoi imprevisti e la necessità di ribellione.
Sono insubordinanti i sentimenti di Don Egidio che si divide tra l’amore eterno per sua figlia e l’incapacità (per lasciti di fede conservatrice che “cambia forma, mica sparisce”) di accettare la sua scelta di abortire.
È insubordinante l’amore tra Don Antonio e Donna Concetta; un amore che non ha sonno e che si tiene dentro a una ripetitività dei rituali condivisi: bella la costruzione a ripetizioni parallele che riassumo con la frase che i due coniugi ripetono a distanza di qualche pagina: “Sul tu sai pecchè ‘o faccio”: entrambi mettono di nascosto qualche goccia di sonnifero nel pasto dell’altro per proteggersi, per un eccesso d’amore.
È così che si schiantano i desideri di questi moderni Sancho Panza. La follia dei Don Chisciotte non è ammessa e restano pagliuzze di storie ricattate dall’assurdo, tra espedienti senza riscatto e qualche carezza masticata nel pianto.
Santafè è un grande libro e Ciro Vittozzi è uno scrittore vero,
andate in pace.
E in libreria.
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