Ho letto che Il Posto di Annie Ernaux è una storia di recuperi e memorie, un esempio di bricolage del ricordo.
E non sono d’accordo.
Chiariamo: c’è tanta memoria, scandita in un timing paratattico di epifanie accennate, ma il tempo, i ricordi, sono ricostruiti per riflessione, scusate il gioco di parola, di specchi.
Ogni racconto è un rivedersi dentro, cioè una lunga storia dell’Io, tuttavia Il posto giusto per leggere e mettersi di fianco all’autrice è guardarla non di fronte, non di sgancio, ma direttamente nel riflesso del suo racconto.
Parla del padre, ma parla di sé, dei rimorsi, della riconoscenza tardiva e delle distanze.
Mi è venuto in mente quando Stoner torna a casa, dopo i primi tempi all’università, e nei nervi, negli sguardi perduti alla Grant Wood di quei due coltivatori non riconosce più la mamma e il papà.
Ernaux invece cerca il riscatto in contropiede, e anche quando denuncia una crisi coniugale per mostrare appartenenza, un po’ affresca un j’accuse tenero, colto, caldo, da abbracci e compassione.
I ricordi, mi si dirà, sono già specchi in fondo.
Soprattutto, ma come si analizza e si lascia guardare l’autrice mostrando rimpianti, incisi di felicità e – forse – perdono, nemmeno nelle nostre sorde preghiere.
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