Volga, la chiamano così, mi disse.

Era un’estate di pubertà accennata: qualche pelo scarno, un costume sotto il quale avevo iniziato a mettere lo slip perché la rete, già da un po’, dava fastidio e, di nascosto dai miei, avevo preso l’abitudine ad allungarmi nelle file degli chalet per bere rum e pera, o rum e coca o quello che chiamavano, nonostante il fegato non ne apprezzasse i corteggiamenti, angelo azzurro.

Erano appena iniziati gli anni 2000 e guardandomi allo specchio mi vedevo bello, alla moda, mica un truzzo con la maglia rosa e dei sabot che nemmeno in ospedale per togliermi l’adenoide.

Insomma, giravamo su e giù per questo paese del Cilento con la vita tra le mani e nei sorrisi e dentro alle mutande.
E c’era questo ragazzo poco più grande di me che però, ai miei occhi di adolescente, sembrava averne abbastanza per insegnarmi la vita.
E capire cosa significasse amare e soffrire.
Credo.

Aveva perso la testa per questa ragazza alla quale rivolsi giusto un paio di convenevoli che avevo imparato quell’estate appena. Ciao, piacere, sì ascolto la musica house.

Poi non credo nemmeno più di averla rivista.
Nemmeno di fianco a questo ragazzo, di cui non solo oggi non ricordo il nome ma nella mia mente resta a stento un contorno vago di ombre.

Volga, disse che la chiamavano.
Ne era innamorato pazzo. Mi descriveva gli occhi, le orecchie e i capelli, le labbra come se non l’avessi vista. Come se li avessi baciati mille volte. Come se non avessi già subito mille volte il suo cuore distrutto dalla salsedine e dall’angelo azzurro.

Viene dalla Russia, mi disse, per questo la chiamano Volga, il fiume più nobile e lungo della Russia, ed io che annuivo dei sì poco convinti a stento conoscevo il santo patrono di Melito.
Nemmeno sapevo come ci si arrivasse in questo paesuncolo del Cilento.

Non so se fosse davvero russa. Forse era Ucraina o Polacca, o Ceca o magari era di Calvizzano e aveva giusto un po’ di sideremia bassa e due occhi ghiaccio.

Fatto sta che passai parte di quell’estate, di cui ricordo poco, qualche ombra e due bruttissimi sabot bianchi, con questo ragazzo, del quale nemmeno so il nome, che si è lamentato dell’amore, e di Volga e della sua straripante strafottenza di fronte a un cuore rotto dal dolore.

E dall’angelo azzurro.

Ricordo.

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