Scritto e diretto da ‎Ricky Gervais, After life racconta il bene che c’è dopo la disperazione

In tre parole posso riassumere tutto quello che ho imparato sulla vita: si va avanti.

ROBERT FROST

Lisa muore di cancro e a Tony, interpretato dallo stesso Gervais, crolla il mondo addosso.
Il dolore lo devasta e l’unica cosa che lo salva è il ricordo che nutre, passando gran parte delle giornate a riguardare i video di quando Lisa era ancora in vita, dallo schermo del pc.

Ce ne sono due tipi:

i semplici video-ricordi di loro due che, scherzando e sorridendo, mettevano su una vita da passare insieme;
video-selfie di Lisa che, in un letto d’ospedale, gli lascia messaggi di conforto.

Un rovesciamento delle posizioni – il morituro che rassicura chi resta – per nulla nuovo e che qui mostra come, in entrambi i casi, la tecnologia, in particolar modo il supporto audio-visivo, serva a superare un lutto.

Durante le due stagioni di After life, mentre Lisa lo invita a continuare a vivere, Tony, incapace a rassegnarsi, convinto che tutta la sua felicità consista nel condividerla con a lei, è insofferente, sempre più cinico e, ciononostante, capace di essere buono con i buoni.

Si circonda di drogati, prostitute e disperati ai quali rivolge lo sguardo buono di chi ha saputo davvero amare fino alla fine.

Tony lavora per un giornale. Di quelli distribuiti gratuitamente e che non raccontano nulla di interessante: macchie d’umidità che ricordano attori famosi, miracoli e talenti improbabili, bambini somiglianti ad Hitler perché ai genitori viene in mente di fargli una fila di lato e dipingergli il classico baffetto – «soltanto perché sembrava divertente».

Un lavoro che poco lo soddisfa, che fa contro voglia – non senza prendere in giro gli intervistati – ma che, col tempo, gli torna in qualche modo utile.

Se non altro per lasciare che da qualche parte il ridicolo e la risata cinica e schietta lo aiutino a sopportare il tutto.

E il doppio intreccio dei raccoglimenti, digitale e reale, pare, anche se lentamente, aiutare il protagonista a superare il trauma del lutto.

Secondo Walter Benjamin, il XIX secolo ha visto una progressiva eliminazione del pensiero ossessivo della morte, cacciandola negli ospedali, nei cimiteri extra moenia, nell’inconscio, nascondendola ai propri occhi:

[…] la società borghese, con istituti igienici e sociali, pubblici e privati, ha ottenuto un effetto secondario che è stato forse il suo principale scopo inconscio: quello di permettere agli uomini di evitare la vista dei morenti.


W. BENJAMIN, IL NARRATORE. CONSIDERAZIONE SULL’OPERA DI NIKOLAJ LESKOV, EINAUDI, TORINO. 2011 CIT., P. 43

Escludendo la morte dai circuiti della quotidianità, e quindi dalla vita stessa, materia da cui trarre le storie, viene meno l’origine del narrato:

Ma sta di fatto che non solo il sapere o la saggezza dell’uomo, ma soprattutto la sua vita vissuta – che è la materia da cui nascono le storie – assume forma tramandabile solo nel morente.

IBIDEM

In After life, raccontando la pietà che, durante tutti gli episodi, caratterizza i personaggi incontrati, e mettendo in serie i ricordi della moglie (un fantasma digitale che preme ancora sulla sua vita), «l’indimenticabile affiora d’un tratto nelle sue espressioni e nei suoi sguardi e conferisce, a tutto ciò che lo riguardava, l’autorità che anche l’ultimo tapino possiede, morendo, per i vivi che lo circondano».

After Life è la celebrazione della vita e la capacità di continuare a raccontarla, in mezzo alla morte, nel bel mezzo della disperazione, nonostante tutto.

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